Mi sono divertito a produrre qualche minuto di audio e nuvolarlo su uno dei tanti server di internet broadcast che mettono a disposizione, gratis o con fee minimalistici, servizi di storage e di editing. L’ho fatto con il mio smartphone Samsung di penultima generazione raccattando suoni attraverso il microfono incorporato perché mi piace l’arte povera ma l’interfaccia Spreaker, volendo, mi avrebbe messo a disposizione una console virtuale di tutto rispetto. Il mio account free mi consente di diffondere suoni e parole al pianeta in diretta stream per 30 minuti al giorno, ma la formula “station” che prevede lo stream 24/7 costa €99.99 al mese comprese 1500 ore di storage – il che per un gruppo di intraprendenti giovani (o meno giovani) che avessero qualcosa da proporre non è per niente proibitivo.
Questa realtà si presta, come sempre, a interpretazioni multiple. E’ una bella cosa?
Senza dubbio, perché liberalizza – nel vero senso della parola – l’accesso al settore e di conseguenza al mercato. Una costellazione di giornalisti, musicisti, attori, intellettuali, pubblicitari e tecnici indipendenti che siano in grado di produrre contenuti di qualità ha ottime potenzialità di generare cultura e reddito, proprio perché le nuove tecnologie stanno abbattendo in maniera esplosiva spese di produzione e necessità di investimenti in attrezzature – questi ultimi addirittura vengono praticamente azzerati.
E del resto anche per i player di sempre, i broadcaster pubblici e privati, le abitudini cambiano in fretta.
Se i giornalisti di Al-Jazeera e di altre emittenti globali vanno in giro per il mondo muniti di i-Phone con app di editing e sono in grado di realizzare servizi live e/o pronti per l’ on-the-air nel giro di qualche minuto, occorre prendere atto del fatto che la convergenza – quella vera – sta riducendo drammaticamente la necessità di apparecchiature professionali. Non capirlo e continuare a scommettere il patrimonio di famiglia o i favori degli azionisti sulla produzione di attrezzature e accessori “professional” come core-business aziendale, per esempio, è un’operazione che deve essere valutata e calibrata attentamente: occorre adattarsi in fretta alla realtà del giornalismo televisivo prodotto con i-Phone e dei programmi radio prodotti con Android. Anche perché il momento storico-economico, vero, offre margini ristrettissimi a chi opera senza un’attenta percezione della realtà.
Sony o Panasonic? Android o i-Phone? Sono scelte che già da ieri possono avere la stessa valenza per qualsiasi broadcaster consapevole.
A questo proposito, su Supermoney ho letto che le richieste di smartphone Samsung in Italia sono aumentate del 23,3%, mentre i dispositivi Apple hanno registrato un calo del 38,2% – e pare che il trend sia globale. Ipotizzo che la ragione del terremoto di settore, al netto degli intrallazzi fra produttori e provider, sia chiarissima: i Samsung costano meno e funzionano esattamente come gli Apple; i consumatori, grazie alla crisi, sono meno narcotizzati dalle “tendenze” e pertanto meno disposti a spendere quattrini inutilmente. Molto semplice, in fondo, e anche parecchio sano. Una concorrenza basata sulla qualità e l’utilità del prodotto e non sul rincoglionimento del cliente è sicuramente auspicabile, quanto meno nel lungo termine, in qualsiasi settore compreso il nostro.
Sono comunque sicuro che, alla prossima IBC di Amsterdam, tutti i corporate manager e gli executive marketing director si produrranno nelle loro abituali arrampicate sugli specchi per dimostrarci, numeri de fantasia alla mano, che la cosa migliore da fare è investire qualche decina di migliaia di dollari nell’ ultimo aggiornamento dell’ennesimo sistema super HD++ 4D stereo turbo surround a sette canali. Sarà divertentissimo, non vedo l’ora.